Personale, MyOwnGallery, via Tortona 27 bis Milano. Marzo- Giugno 2006.
Bambole, bimbe, «puffe» come dichiara l’artista, in una visione stupita e divertita della femminilità. Sono altorilievi dipinti con colori fluorescenti, figurette ironiche che vogliono sottolineare la freschezza di ogni giovane donna, sfrontata e ingenua. L’abito non più come strumento per «divinizzarsi» ma per giocare, irridere, provocare. Sono anche bambole di carta, sculture in resina bianca che riproducono la forma originale, fatta di fogli accartocciati e ricomposti seguendo un percorso che sembra prendere le distanze dalla perfezione plastica delle opere precedenti.
"Nell’abito, con l’abito si può tutto, anche ricreare da capo una specie di mitologia della forma dato che poi, in fondo, l’arte produce sempre, quasi inevitabilmente, un contatto colla dimensione mitica. Apertura, quindi, ma al tempo stesso, e forse alla ricerca di una specie di equilibrio, l’artista progetta un intervento del tutto diverso, finalmente abitato: sono le piccole donne, oppure le bambole nate negli ultimi mesi. Scopo di Lucchini questa volta è di rivitalizzare un’altra componente della propria memoria, specialmente dolce e affettuosa. Simili una all’altra, stilizzate, con grandi volti ovali senza occhi e senza identità, queste figure rappresentano infatti la vita, il sentimento di innumerevoli ragazzine ingenue che con ingenuità desiderano il rivestimento che le renda diverse, uniche, desiderabili; trasfiguri la loro immagine fino a fare di loro delle divinità contemporanee. Insomma, rappresentazioni pure di desiderio, di contatto. Quasi segretamente, in queste bambole si annida poi un dettaglio autobiografico, intimo e minimo di sua moglie, compagna di vita, pensiero, scelte, avventure della figlia Gaja. Ma si tratta appena di un’insinuazione, destinata a conferire alla figura un’ulteriore spunto di tenerezza. Per il resto, infatti, le bambole sono figure moltiplicate, replicate, nessuno in particolare, non una (l’artista tiene molto a questo elemento) ma più, una folla, potenzialmente tutte, tutte quelle che vorrebbero ma non sono, o non sono ancora. Non importa chi, non importa quante. Più o meno simili, queste sculture hanno arti grossolanamente cilindrici, che ricordano le configurazioni tozze delle prime opere di Brancusi, quelle più dichiaratamente ispirate alle culture primitive, per esempio Primi passi o Ragazzina francese. Sono statue essenziali, prossime alle avanguardie; c’è in loro una dimensione di necessità che trae senso dal profondo interesse che Lucchini nutre nei confronti delle arti primitive, delle forme semplici, addirittura elementari. Non a caso si tratta di bambole: Max Ernst collezionava avidamente le figure Kachina Hopi e Zuni, cui si ispirano molte delle sue opere tarde; forme quasi grossolane, senza pretese mimetiche o naturalistiche, incarnazioni dell’altro, e dell’arte che congiunge il cielo alla terra, la natura agli uomini. Bambole, ancora, erotiche, per Kokoschka, che in esse lasciava rivivere il fantasma di Alma Mahler, colpevole di un indocile, intempestivo abbandono. La bambola, in qualche modo, è al centro dei sogni, degli incubi delle avanguardie. Oggi Flavio Lucchini vuole sognare ancora questo sogno, naturalmente a modo suo, per riportare una presenza umana fra i silenziosi simulacri di gesso e di resina, di bronzo e d’oro, che ha costruito per quindici anni. Oggi invece, di fronte all’abito perfetto e inviolabile, c’è uno spettatore, anzi una spettatrice senza nome né volto ma con un desiderio che la rende vera".
Martina Corgnati