




Personale, MyOwnGallery Via Tortona 27 bis Milano, Novembre 2004 - Gennaio 2005.
La galleria MyOwnGallery inaugura la propria attività con le ultime sculture dell’artista-residente Flavio Lucchini, che attraverso la sua Dress Art da anni indaga in profondità il rapporto tra arte e moda. La mostra è curata da Martina Corgnati.
"Flavio Lucchini è dichiaratamente innamorato di Canova perché, a parer mio, si identifica nel tentativo di quest’ultimo, volto a sottrarre la bellezza all’effimero. Non a caso il suo lavoro sulla scultura condotto negli ultimi quindici anni risponde a un’esigenza simile. Trascurando, per il momento, i grandi bassorilievi e totem in metallo, che richiedono un’analisi specifica, e concentrandosi invece sui recenti bassorilievi e sculture in gesso e soprattutto fibra e resina più o meno laccata e lucida, risulta subito evidente come lo sguardo dell’artista, abituato nei decenni di ideazione e direzione delle migliori riviste di moda italiane (da Vogue a Mondo Uomo, da Lei a Moda) a interpretare, scegliere, apprezzare, decodificare l’abito, l’immagine, il corpo trasfigurato, abbia cercato con cura, immensa dedizione e illimitato impegno, il modo giusto di fissare l’impressione di bellezza assorbita e decantata nel corso di una vita intera in forme più stabili e più perfette di una fotografia stampata su carta patinata, dichiara. Ecco quindi che questo mondo transeunte, questo precipitato di attualità che si chiama made in Italy e che Lucchini stesso ha grandemente contribuito a creare negli anni della militanza giornalistica, si purifica in forme plastiche perfette, superfici illese, seducenti, preziosamente increspate; oppure solcate da pieghe geometriche, da angoli e spigoli e protuberanze taglienti. Superfici sempre ambigue: infatti se a una distanza adeguata emerge chiaramente riconoscibile la forma dell’abito, il simulacro del corpo femminile ricreato dal rivestimento, avvicinandosi di più l’occhio si perde nel paesaggio di rilievi e depressioni, di acuti improvvisi e larghe campiture che sembrano disperdersi in lontananze imprecisate… Si tratta, in ogni opera, di forme pure, vuote, inabitabili da qualunque corpo, da qualunque soggetto troppo definito. Il vestito, infatti, è soggetto in se stesso e non ha bisogno di ulteriori giustificazioni se si esclude, forse, la memoria del panneggio, che lo abita sempre. Non per nulla, ben prima e ben al di là della moda, i percorsi della pittura e della scultura si possono considerare anche dall’angolo visuale delle rappresentazioni di tessuti, di broccati, sete, tappeti, di veli e mantelli che trasfigurano le forme dei corpi, di lembi quasi viventi che occultano visioni proibite, oppure di accessori preziosi che nobilitano santi e vergini e personaggi storici. Flavio Lucchini lo sa e, pur senza perdersi nell’oceano di citazioni e rimandi possibili, mostra una certa delizia a indugiare nella possibilità di un panneggio puro, decantato e in un certo senso “liberato” dal tema principale. Per questo, se mai si potesse scrivere una storia attendibile del panneggio (a mia conoscenza, un’impresa che non ha ancora tentato nessuno) i bassorilievi dell’artista dovrebbero esservi necessariamente inclusi, quasi alla stregua di conclusione e di meditazione.
Dai precedenti Dress Memory, bassorilievi bianchi come futura “archeologia della moda”, sono nati gli ultimissimi Ghost che, ancora una volta, si protendono nelle tre dimensioni, rinunciando alla sicurezza conclusa del proprio candido involucro; forme sempre morbidissime ma ora decisamente più coraggiose, configurazioni astratte sospese nel vuoto del nostro spazio. Perché ghost? Queste presenze monumentali, affrancate dalla simulazione guidata del rilievo, dove lo sguardo non può perdersi trattenuto com’è dal limite della “finestra” plastica ritagliata dall’artista, si stagliano intorno a noi con la perentorietà di autentiche icone. Sembra che Lucchini si ponga sempre meno il problema della loro identità. A volte, infatti, la fantasia corre involontariamente verso il mondo vegetale, come se l’esuberante ricchezza del tessuto si trasformasse in un florilegio di viticci, in una composizione di chiome rigogliose e prorompenti. Metamorfosi, latenti, di un’opera aperta, consapevole del surrealismo trasfigurato di Tanguy, di Max Ernst, di Toyen. Sono fantasmi di ricordo, elementi che affiorano e sembrano occupare la coscienza. La loro magniloquenza e monumentalità non impedisce all’artista di curarne tutti i particolari, di modellarne accuratamente ogni curva e ogni increspatura. Si tratta, in un certo senso, di progressive traduzioni di scala, di passaggi dal piccolo, e indefinito, al grande e precisissimo. Certo che in queste forme, a ben guardare, si riconosce con chiarezza una manica, una scollatura, un modello; ma l’evidenza si appanna, un attimo dopo, per cedere il passo a un’altra possibilità, un cuneo, un tronco, una sequenza di piani sbalzati. Apollo e soprattutto Dafne: la classicità è ricchissima di metamorfosi, di trasformazioni subitanee, di colpi di scena. Nel vestito, o meglio nella sua traccia plastica, Lucchini ritrova l’interprete perfetto della licenza poetica e dell’esuberanza creativa del racconto antico. Nell’abito, con l’abito si può tutto, anche ricreare da capo una specie di mitologia della forma dato che poi, in fondo, l’arte produce sempre, quasi inevitabilmente, un contatto colla dimensione mitica".
Martina Corgnati




